Copyright, le leggi sul diritto d’autore vanno aggiornate all’epoca digitale

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Interessanti spunti sono arrivati a livello europeo, ma l’attività delle lobby frena il progresso: e se si pensasse a una protezione a breve termine?

Mentre si cerca di capire quanto la tecnologia cambi costantemente ogni singolo aspetto dell’esistenza umana, molti dei processi che ha messo in atto hanno già lasciato indietro qualcosa. Questa volta la sociologia non c’entra, o almeno non del tutto: la patata bollente è il diritto d’autore.

La circolazione di idee e contenuti, sempre più veloce e capillare, ha mandato in tilt il sistema con cui si regolava la proprietà intellettuale. Per di più, secondo alcuni, il problema sta anche nel nome: “proprietà intellettuale” risulta anacronistico. Il punto non è che non esistano leggi e quindi che internet sia il tanto demonizzato “far west”. La questione, piuttosto, è che certe regolamentazioni puzzano di muffa.

La storia della madre che riprende il suo piccolo mentre balla “Let’s go crazy” di Prince, e vede rimuovere il proprio video, diventato virale, per una questione di copyright, è passata alla storia: la Corte d’Appello degli Stati Uniti ha dato ragione alla mamma, in nome del Fair Use, ma il sistema partiva dalla presunta colpa, per poi dimostrare il contrario.

Da questo assunto parte l’analisi di Shane Richmond, che su Politico, tratta lungamente la questione. Il sistema di leggi e tutele che regola il copyright, non poteva tener conto di quello che sarebbe successo in futuro. Basti pensare agli aggregatori di notizie: in molti ritengono che servizi simili dovrebbero pagare le fonti. Senza contare le lunghe diatribe sugli streaming di musica, o di cinema. E poi citazioni artistiche, che all’epoca di Instagram assumono nuove valenze.

Un interessante slancio è arrivato dall’europarlamentare tedesca Julia Reda, all’inizio di quest’anno, con il report sulla riforma del copyright in Europa. La sua iniziativa – qui spiegata per punti – si muoveva in più direzioni, cercando di allentare il potere dei detentori dei diritti e delle lobby, riscrivendo la prima direttiva UE del 2001 (Infosoc) in un’ottica che vedesse al centro l’utente. Uno dei punti toccati era la richiesta di armonizzazione dei diritti d’autore a livello europeo considerando le esigenze di tutti, non solo orchestrando le volontà dei detentori dei diritti.

Ha chiesto l’abbassamento della protezione dell’opera dai 70 ai 50 anni e un’altra delle proposte riguarda la portabilità dei contenuti. Esempio: se un cliente Netflix francese va in vacanza in Germania, dovrebbe poter fruire dei contenuti per i quali ha pagato, anche se fuori dal confine nazionale quei contenuti non sarebbero fruibili per questioni di copyright. Anche perché il cliente che non trova un contenuto che in altre regioni è disponibile, poi ricorre alla pirateria. E siamo punto e a capo.
Il progetto europeo promette di valutare opzioni per il cambiamento, ma c’è da scommettere, dice Richmond, che le pressioni delle lobby saranno più che poderose.

E poi bisogna considerare la faccenda dell’esecuzione, sempre molto cara a chi detiene le licenze. Richmond, spiega, è stato consulente di Bloom.fm, un servizio di streaming musicale che ha offerto abbonamenti a partire da 1 sterlina al mese. Molte etichette hanno rifiutato di dare le licenze dei propri contenuti a quella cifra e hanno insistito per un aumento. Che in linea di principio è anche giusto, ma poi, al mercato, chi glielo spiega?

La linea dell’analisi di Richmond è “minimalista”: “Se ho una macchina e tu la prendi, io non avrò più una macchina. Se io ho un’idea e tu te ne appropri, saremo in due con la stessa idea”, scrive: “Pensare i prodotti come beni aiuta soltanto le aziende che hanno costruito il proprio business ad accumulare diritti“. Questo non vuole essere un invito al furto intellettuale: si potrebbe pensare a un periodo di protezione, scaduto il quale gli altri possano essere liberi di riutilizzare, ripensare e dare nuova linfa a concetti. È così che la cultura si rinnova e resta vivace, e così che si è evoluta.

Ma su questo non c’è nessuna speranza all’orizzonte: “Questa misura è, purtroppo, fuori dal tavolo. Il progetto europeo non offre speranza su questo punto, anche se è bello vedere l’utente al primo posto. Temo però che, ancora una volta, il lobbing diminuirà la reale forza del cambiamento“. I tempi di assimilazione delle direttive sono lunghi, richiedono anni e sforzi. E il mondo non aspetta.


Diletta Parlangeli
WIRED.IT


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